lunedì 30 maggio 2016

Roma Poesia Reading - 28 maggio 2016

Da Alessandra:

La Tirnità de pellegrini, di Giuseppe Gioacchino Belli

Che ssò li pellegrini? Sò vvassalli, 1
pezzi-d’ira-de-ddio, girannoloni,
che vviaggeno cqua e llà ssenza cavalli
e cce viengheno a rroppe li cojjoni. 2

E appena entreno a Rroma calli-calli 3
co le lòro mozzette e li sbordoni,
’ggna alloggialli, sfamalli, ssciacquettalli, 4
come fússino lòro li padroni.
       
Ma sti bboni cristiani de Siggnori
che li serveno a ccena, ammascherati
da sguatteri, da cochi e sservitori,
 

je dicheno in ner core: «Strozza, strozza; 5
ma gguai, domani, si li tu’ peccati
me te porteno avanti a la carrozza».

Giovedì santo 9 aprile 1846

Note
1 Canaglia.
2 A disturbare.
3 Caldi caldi.
4 Qui si allude alla lavanda de’ piedi.
5 Mangia, mangia: ingolla, ingolla.


Da Nunziata

Il facchino, di Armando Fefè
 
Il FACCHINO di via LATA (adiacente a piazza del Collegio Romano) è una delle più note statue parlanti:
rappresenta un “acquaiolo” (acquarenari o portatori di acqua) che porta in mano un barilotto con un foro centrale da cui si versa acqua nella sottostante vaschetta.
Secondo un’altra leggenda la piccola fontana sarebbe stata dedicata ai facchini portatori di vino, ed assumerebbe le fattezze di un certo Abbondio Rizo, noto per la sua forza ma anche per la sua smoderatezza nel bere.
In passato la piccola fontana era sormontata da una lapide dedicatoria su cui era impressa in latino una dedica che tradotta suona così:
“ Ad Abbondio Rizzo, coronato sul pubblico marciapiede espertissimo nel legare e soprallegare fardelli, il quale portò quanto peso volle, vissè quanto potè, ma un giorno, mentre portava un barile di vino in spalla e un altro in corpo, morì senza volerlo”
Coronato su pubblico marciapiede sta a ricordare uno strano rituale a cui doveva sottoporsi ogni facchino: i colleghi gli facevano ripetutamente battere il sedere sul marciapiede nel punto esatto della postazione a lui riservata.
Il poeta romanesco Armando Fefè vissuto tra il 1905 e il 1969, ispirandosi a questa statua ha composta questa breve e simpatica poesia:

St’amico che se fa chiamà Facchino,
faceva invece l’oste,
e fregava le poste
mettènno l’acqua ar vino.
In fin de vita se la vide brutta
E disse ar Padreterno:
“Signore, si me sarvi da l’inferno
L’acqua vennuta la riverso tutta”.
‘Mbè, so’ quattrocent’anni e ancora butta.


E ancora

La bellezza di Roma, di Gabriele D'Annunzio

D'Annunzio disegna Piazza di Spagna, una delle più belle piazze romane, in un momento di particolare festosità: l'eleganza degli elementi architettonici (la chiesa, la scalinata, l'obelisco, la fontana) è posta in risalto dal sole primaverile, la luce dilagante e dorata, i colori della Pietra, lo scintillio delle acque compongono uno spettacolo animato e felice, in cui si inseriscono, appena accennate e intonate all'ambiente, le figure di una bella ragazza che passa e del giovane poeta stesso;
La grazia di questa composizione deriva anche dalla sua musicalità, facile ed evidente come quella di una canzone.

Dolcemente muor Febbraio
in un biondo suo colore.
Tutta a 'l sol, come un rosaio,
la gran piazza  aulisce in fiore.
Dai novelli fochi accesa,
tutta a 'l sol, la Trinità
su la tripla scala ride

ne la pia serenità.
L'obelisco pur fiorito
pare, quale un roseo stelo;
in sue vene di granito
ei gioisce, a mezzo il cielo.
Ode a pié de l'alta scala
la fontana mormorar,
vede a 'l sol l'acque croscianti
ne la barcall scintillar.
In sua gloria la Madonna
sorridendo benedice
di su l'agile colonna
lo spettacolo felice.
Cresce il sole per la piazza
dilagando in copia d'or.
E' passata la mia bella
e con ella va il mio cuor.

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Da Daniela

Viaggio in Italia, di Wolfang Goethe

Roma, 7 novembre.
Sono qui da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografia della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l'altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.
Confessiamolo pure, è un'impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione. Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.

Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell'antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all'osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova. Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.
Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente» quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare. Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti Dovunque si vada o si stia si è sicuri d'aver davanti agli occhi un quadro vario e complesso. Palazzi e ruine, giardini e deserti, vastità ed angustia, cupole e stalle, archi di trionfo e colonne spezzate, e spesso tutte queste cose così vicine le une a le altre che si potrebbero disegnare in un solo foglio. Ma ci vorrebbero migliaia di bulini per esprimere quello che vorrebbe dire una sola penna! E poi la sera si torna a casa stanchi ed esausti per l'ammirazione e per la meraviglia...

http://www.tesoridiroma.net/letteratura/roma_goethe.html


Da Tania

Luna di un pomeriggio d’estate a Roma, di Endre Ady

“Sbirciando su Roma, / con al seguito uno stormo di rondini, / invia ovunque il suo beffardo sorriso / la Luna d’un pomeriggio d’estate. / Azzurrità e rosso immensi / oggi recano dal passato / di nuovo e ancora ciò che fu. / Mutano I sacri campi il velo opaco, / I colli il loro colore di sogno: / intessuta fra trionfi e rovine, / tra Luna e Sole, / distesa s’affaccenda e s’agita / Roma nel tempo. / Oh eternità meravigliosa! / santo, antico, mutabile sito, / Urbs, tu che fai dimenticare, / si traggono fuori dall’inferno della vita / dell’io il mio corpo e la mia anima- / tu divina, tu protettrice sommità! / Ecco, t’ho portato me stesso, / adesso dammi riparo e difendimi, / Tu bella, tu provvida, tu eterna. / In eterno vivo ed ho vissuto, / cambio sembianze soltanto, / come Ulisse il greco. / Benedico Roma che brulica, che stringe / ogni cosa nel suo abbraccio, / grande anche nelle mollezze. / Oggi, se lo volessi, / sull’ala d’un sogno vespertino / posso essere Remo. / Rimiro le donne attuali, / i tempi andati e che verranno: / da tanto e tanto io vivo qui, / ed è uguale qui ogni vita. / Anche la luna già ci conosce, / sogghigna e non riscalda: / sbirciando passa su Roma”.

Dalla raccolta “La vita che fugge” 1912


Da Anna Maria F.




La nascita de Roma, di Vincenzo Galli


Romolo disse a Remo: « Er sorco è fatto.
Mo ce rimane da riempì er quadrato
de case e scòle; un murajone adatto
listesso a un baluardo corazzato...


Su, porteme la carce!... ››. «Ah tutto matto...
_ je rispose er fratello, impaturgnato -
nun ciai nemmanco un cìnico de tatto
co' 'st'arie da ingegnere appatentato?!


Co' la cofena in collo, amico mio,
nun me ce vedi!...›› « Embè, vordì che allora.
uno dei noi è de troppo... e nun so' iol... ››


Accusì j'ínfirzò una lama in panza!...
E quello fu er principio, er giorno e l'ora
che a Roma cominciò... la fratellanza!...


Da Silvana

Satira IX,1, di
Orazio


Il seccatore

Mi trovavo a camminare lungo la via Sacra, come è mia abitudine, mentre pensavo fra me e me non so che sciocchezze, tutto preso in quelle: ed ecco che arriva un tizio che mi era noto solo di nome, ed afferratami la mano mi dice: "Come va, carissimo ?". "Benissimo, finora - io dico - e ti auguro ogni bene".
Poiché mi teneva dietro, lo precedo: "Desideri forse qualcosa ?". Ma egli disse: "Dovresti conoscermi, siamo letterati". Allora io dico: "Per questo fatto conterai di più ai miei occhi". Tentando disperatamente di andarmene, andavo più veloce, talvolta mi fermavo, dicevo non so che all'orecchio dello schiavo, mentre il sudore grondava fino all'estremità dei calcagni. Dicevo fra me: "Felice te, Bolano, che ti va subito il sangue alla testa" - mentre egli ciarlava di qualunque cosa e lodava i quartieri e la città. Poiché non gli rispondevo nulla, disse: "Cerchi invano di andartene, lo vedo già da un pezzo; ma non ti serve a nulla, ti terrò sempre dietro; ti starò alle costole da qui a dove sei diretto".
"Non c'è bisogno che tu faccia un giro così lungo: voglio far visita ad un tale che tu non conosci; è a letto malato distante da qui, oltre il Tevere, vicino ai giardini di Cesare".
"Non ho niente da fare e non sono pigro: ti seguirò senza tregua".
Abbasso le orecchie, come un asinello scontento, quando sopporta con la schiena un peso troppo gravoso. Egli attacca a parlare: "Se ben mi conosco, non stimerei di più l'amico di Vario, non di più l'amico di Visco: infatti chi potrebbe scrivere versi più lunghi o chi più velocemente di me ? Chi potrebbe danzare più leggiadramente ? Io canto in modo tale che persino Ermogene sarebbe invidioso".
26 Quello era il momento di interromperlo: "Hai una madre, un cognato, che hanno bisogno che tu stia bene ?".
"Non ho nessuno: li ho seppelliti tutti".
"Beati loro, ora resto io. Dammi il colpo di grazia: dunque incombe su di me il triste destino che una vecchia fattucchiera sabina mi vaticinò mentre ero ragazzo dopo aver scosso l'urna profetica: costui non porteranno via né i terribili veleni, né la spada di un nemico, né la pleurite, né la tisi, né la gotta che rende lenti: una volta o l'altra un chiacchierone lo distruggerà; se ha buon senso eviti le persone loquaci, appena sarà diventato adulto".
Si era giunti presso il tempio di Vesta, trascorsa ormai la quarta parte del giorno ( 9/10 del mattino ) e allora gli toccava presentarsi in giudizio, avendo offerto garanzia; se non l'avesse fatto, doveva perdere la contesa.
"Se mi vuoi bene, disse, assistimi un po' qui".
"Possa morire, se sono capace di assisterti, o conosco i diritti civili; ed inoltre sono diretto di fretta dove sai".
"Sono in dubbio su cosa fare - disse- se lasciare te o la causa".
"Me, per favore".
"Non lo farò" - rispose - e prese a precedermi; io, dal momento che è difficile lottare col vincitore, lo seguo; da questo punto riprende il discorso: "Come si comporta Mecenate con te ?".
"E' un tipo di poca compagnia e di sano giudizio".
"Nessuno ha saputo far uso della fortuna meglio di te. Avresti in me un grande aiutante, che potrebbe farti da spalla, se volessi presentare ( a lui ) quest'uomo: potessi morire se non avresti scalzato tutti".
"Lì non si vive in questo modo che tu pensi; e non c'è casa più pura di questa, né più aliena a questi mali - io dico - e non mi disturba affatto che egli sia più ricco o più saggio: c'è per ciascuno il suo posto".
"Racconti un fatto grande, a stento credibile".
"Eppure è così".
"Mi interessi, perciò vorrei essere uno dei suoi intimi amici".
"Basta che tu lo voglia: dato il tuo valore, lo conquisterai; ed è tale da poter essere vinto, e per questo ritiene difficili i primi approcci".
56 "Non mancherò di ardire: corromperò i servi con doni; non desisterò se oggi non sarò stato ricevuto; cercherò le occasioni giuste, gli andrò incontro agli incroci, lo accompagnerò. Niente la vita diede agli uomini senza grande fatica".
Mentre dice queste cose, ecco che arriva Fusco Aristio, a me caro e tale da conoscere bene quell'individuo. Ci fermiamo. "Da dove vieni e dove vai ?" - chiede e risponde. Presi a tirarlo per la toga, stringergli con la mano le braccia del tutto insensibili, facendo cenni, ammiccando con gli occhi, perché mi portasse via. Quel cattivo burlone faceva finta di niente ridendo; la bile mi bruciava il fegato. "Dicevi di volermi dire certamente in segreto non so che".
"Mi ricordo bene, ma te lo dirò in un'occasione migliore: oggi è il trentesimo sabato: non vorrai mica recare offesa agli ebrei circoncisi ?". Io rispondo: "Non ho nessuno scrupolo religioso".
"Ma io sì ! Sono un po' meno sicuro, uno dei tanti. Mi perdonerai; me ne parlerai in un altro momento".
Questo giorno era sorto così nero per me ! Il briccone se la svigna e lascia me sotto il coltello. Per caso gli viene incontro l'avversario nella causa ed esclama a gran voce: "Dove vai, scellerato ? - e - Posso prenderti per testimone ?". E io senza esitazioni gli porgo l'orecchio. Lo trascina in giudizio; confusione da entrambe la parti, accorrere da ogni parte. Così mi salvò Apollo.


Testo originale

Ibam forte uia Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
accurrit quidam notus mihi nomine tantum,
arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?"
"suauiter, ut nunc est," inquam, "et cupio omnia quae uis"
cum assectaretur, "num quid uis?" occupo. at ille
"noris nos" inquit; "docti sumus." hic ego "pluris
hoc" inquam "mihi eris." misere discedere quaerens,
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. "o te, Bolane, cerebri
felicem!" aiebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, uicos, urbem laudaret. ut illi
nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire;
iamdudum uideo: sed nil agis; usque tenebo;
persequar hinc quo nunc iter est tibi." "nil opus est te
circumagi: quendam uolo uisere non tibi notum:
trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos."
"nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te."
demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
cum grauius dorso subiit onus. incipit ille:
"si bene me noui non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit uersus? quis membra mouere
mollius? inuideat quod et Hermogenes ego canto."
interpellandi locus hic erat: "est tibi mater,
cognati, quis te saluo est opus?" "haud mihi quisquam:
omnis composui." "felices! nunc ego resto.
confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit diuina mota anus urna:
hunc neque dira uenena nec hosticus auferet ensis,
nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;
garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
si sapiat, uitet, simul atque adoleuerit aetas."
uentum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
praeterita, et casu tunc respondere uadato
debebat quod ni fecisset, perdere litem.
"si me amas" inquit "paulum hic ades." "inteream si
aut ualeo stare aut noui ciuilia iura;
et propero quo scis." "dubius sum quid faciam" inquit,
"tene relinquam an rem." "me, sodes." "non faciam" ille,
et praecedere coepit. ego, ut contendere durumst
cum uictore, sequor. "Maecenas quomodo tecum?"
hinc repetit: "paucorum hominum et mentis bene sanae;
nemo dexterius fortuna est usus. haberes
magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
hunc hominem uelles si tradere: dispeream ni
summosses omnis." "non isto uiuimus illic
quo tu rere modo; domus hac nec purior ullast
nec magis his aliena malis; nil mi officit" inquam
"ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
cuique suus." "magnum narras, uix credibile." "atqui
sic habet." "accendis, quare cupiam magis illi
proximus esse." "uelis tantummodo, quae tua uirtus,
expugnabis; et est qui uinci possit, eoque
difficilis aditus primos habet." "haud mihi deero:
muneribus seruos corrumpam; non, hodie si
exclusus fuero, desistam; tempora quaeram;
occurram in triuiis; deducam. nil sine magno
uita labore dedit mortalibus." haec dum agit, ecce
Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
qui pulchre nosset. consistimus. "unde uenis? et
"quo tendis?" rogat et respondet. uellere coepi,
et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus
ridens dissimulare: meum iecur urere bilis.
"certe nescio quid secreto uelle loqui te
aiebas mecum." "memini bene, sed meliore
tempore dicam: hodie tricesima sabbata: uin tu
curtis Iudaeis oppedere?" "nulla mihi" inquam
"religio est." "at mi: sum paulo infirmior, unus
multorum: ignosces: alias loquar." huncine solem
tam nigrum surrexe mihi! fugit improbus ac me
sub cultro linquit. casu uenit obuius illi
aduersarius et "quo tu turpissime?" magna
inclamat uoce, et "licet antestari?" ego uero
oppono auriculam. rapit in ius: clamor utrimque:
undique concursus. Sic me seruauit Apollo