domenica 2 agosto 2015

Albinati: raccontare la realtà, questioni di stile e questioni di lingua

[...] Torno al punto e ripeto a me stesso: il borghese che si occupa di disgraziati non potrà salvarsi dal sospetto di voyeurismo. Anzi il primo a sospettare sarà proprio lui: non è che sto facendo tutto questo per mettermi in pace la coscienza? solo perché gli altri si convincano che io sono buono? per morbosità? per riscattare un senso di colpa? perché i disgraziati di cui mi occupo rappresentano la vita vera mentre la mia corre via piatta e sciapa? Ricordo un romanzo di Doris Lessing, Il diario di Jane Somers, parlava proprio di questa sindrome altruistica: una signora borghese a cui non manca nulla per dichiararsi realizzata, si dedica anima e corpo ad assistere una vecchiaccia incontinente. Perché lo fa?
Per uno scrittore, poi, l'idea che la vita dei disgraziati sia l'unica che valga la pena di narrare può essere addirittura ossessiva, e va ben oltre un credo politico o una scuola di stile (realismo, verismo ecc.), visto che i suoi capolavori evadono tali dottrine, penso p.e. al genio visionario di Stephen Crane, alla furia poetica di Verga... Questi ragionamenti li faccio mentre leggo Stranieri di Maria Pace Ottieri: è un libro singolare, composto dalle voci di decine di immigrati passati per un Centro di accoglienza a Milano (”le schede, oltre settemila, sono archiviate per paese e in ordine alfabetico in lunghi e pesanti cassetti di ferro, come stive di navi, uno per continente dall'Afghanistan allo Zambia. Si riempiono a ondate, Somalia, Sri Lanka, Bangladesh, Perù, in sincronia con i grandi eventi del mondo, guerra, crisi economiche, svalutazioni, carestie, calamità naturali...”), ciascuno annunciato da un nome solenne e astrale, Sheeba Solomon Veluthaparabil o Emérencienne Ngoh Nee Boyomo oppure Mohamud AlaSow Nurhaij, Basil Ahoukoukanzon, Tennakoon Mudiyanselaga Sudarna, oppure Nilant Wijethunge Arachichge (chissà se M.P.O. ha conservato i nomi originali o li ha camuffati, imbrogliati...), un libro notevole insomma, che si conclude a ricciolo con un ripensamento dalla distanza di una villeggiatura, un buen retiro di famiglia intellettuale, dove non è difficile immaginare, nella quiete ronzante del dopopranzo, l'autrice china su un portatile a rimaneggiare in buona prosa italiana le tremende esperienze vissute dai suoi ospiti neri, gialli e rossi per arrivare in Italia e resisterci. E il ripensamento suona tra le righe così: è dunque per scrivere un libro che ho lavorato un anno lì dentro? sono stata, mio malgrado, una benintenzionata spia... una colonialista narrativa... una material girl all'incontrario, invertita di segno, che invece di pellicce e gioielli era avida di disgrazie africane?
Questione generale: da quale connotato di classe resta segnata la lingua di uno scrittore quando trascrive l'esistenza di individui che gli sono inferiori per stato sociale? (Estendere le vecchie categorie - di classe - alla realtà d'oggi: cioè al contrasto paesi ricchi-paesi poveri).
Ancora più in generale, può uno scrittore rinunciare a essere strumentale nei confronti della vita?
Alla prima domanda non so rispondere. Alla seconda rispondo: no. Strumentalità non vuol dire vivere apposta per poter scrivere ciò che si è vissuto. Fare un'esperienza solo per raccontarla. Piuttosto, vuol dire rendere la propria vita una concavità d'ascolto, un vuoto tecnico che risuoni di voci estranee, a cominciare dalla più estranea e sorprendente di tutte, la propria (senti come sono pascoliano: il fanciullino...), poiché siamo materia informe prima del tocco di una parola che nessuno possiede interamente e da essa veniamo trasformati in modo ben poco prevedibile. Non esiste dunque alcuna esperienza che possa essere intenzionalmente provocata al solo scopo di essere trascritta, e questo uno scrittore lo sa perché tutte le volte che si è gettato con la fiocina in mezzo alla realtà per infilzarla - il grande scintillante pesce - si è ritrovato con la classica scarpa. Lo si sente dalla qualità finale della prosa: frasi fatte e fondali di cartone. Questa è anche la caratteristica legnosità di tanto reportage autoríale: vanno, vedono, registrano, scrivono, ma non hanno capito niente, eppure la chiamano "scrittura della realtà” solo perché si parlava di Sarajevo o della mafia. Quella sì che è un'esperienza "strumentale", dunque una "non-esperienza”. L'unico movimento di anticipo che uno scrittore possa fare è istintivo: si va verso il proprio mondo. Il mondo di Maria Pace Ottieri è nero - anche a Milano. [...]

Edoardo Albinati
Da Maggio Selvaggio. Milano : Mondadori, 1999 (pagg. 87-89)